Mentre in Ucraina imperversa una guerra che sta tenendo il mondo con il fiato sospeso, ora che tutte le associazioni missionarie e umanitarie si stanno attrezzando per inviare aiuti in Ucraina e ricevere i primi profughi mi è inaspettatamente arrivata la proposta di andare in Bosnia per dare supporto ai profughi mediorientali attraverso la missione di Hangar 28.
Sono almeno due anni che sento il desiderio di entrare in contatto con la realtà del campo profughi quindi i primi di marzo ero in viaggio verso Bihac, base della missione e centro delle nostre operazioni. Qui a Bihac come a Velika Kladusa siamo adì fronte a una tappa, anzi, a un limite importante che rischia di spegnere le speranze dei migranti che battono la rotta balcanica. Loro, i profughi, sono in maggioranza ragazzi poco più che ventenni ma ho incontrato anche famiglie con bambini e donne con figli, appartenenti per lo più alle nazionalità afghana, pakistana, iraniana con qualche inserimento di iracheni e curdi.
I loro racconti parlano di migliaia di chilometri percorsi in numerosi anni per scappare dai governi repressivi, dalle dittature islamiche imposte da Daesh e dalla povertà. Ma non solo: molti sono dissidenti politici, altri omosessuali, altri vivono paure e trascorsi non confessabili e altri, non essendo di fede musulmana, in patria sarebbero pesantemente perseguitati.
Come accennavo il confine bosniaco-croato è un muro quasi invalicabile che i migranti non conoscono quando iniziano il viaggio e così finiscono per rimanervi per mesi, anni.
Nel frattempo tutti provano a passare il confine, tutti tentano il Game più e più volte perché, lo sanno, sono pochi quelli che riescono a evitare la polizia, i cani da guardia, la tecnologia alla frontiera e i nuovi “Alì Babà”, migranti organizzati in bande che derubano altri migranti intenti a valicare il confine.

Molti profughi abbandonano i centri d’accoglienza appositamente allestiti per riceverli e si rifugiano, quando va bene, in case e fabbriche abbandonate occupandole abusivamente. Noi della missione li abbiamo incontrati e siamo stati ospitati in questi squat portando loro delle provviste alimentari, indumenti, qualche medicinale da banco e vari vangeli scritti nella loro lingua nativa; appaiono subito lampanti le condizioni critiche di quei rifugi così diversi tra loro ma formati spesso da abitazioni temporanee e gli occupanti lo sanno, così alcuni ci vivono in totale degrado mentre altri sono maggiormente attenti alla pulizia, al decoro e all’arredamento indispensabile nella stagione fredda: materassi, tappeti e stufe a legna.
Alcuni non usufruiscono di questi lussi perché abitano in accampamenti costituiti da tende circondate dal fango con all’esterno due mattoni impilati e sopra una griglia da barbecue per cucina, che quando piove e nevica è inutilizzabile. Davvero difficile vivere così.
L’Europa è così vicina eppure così lontana.
La speranza di farcela e di accedere a una vita nuova e migliore è il motore di questo improvvisato melting pot. La speranza di una svolta è l’incentivo che motiva loro ma anche noi: ci spinge a condividere con queste persone la risorsa più importante di tutte: la fede in Gesù.
È Gesù, con il Suo potente messaggio rivoluzionario, che viene annunciato negli squat invasi dal fumo delle stufe a legna.
Ascoltiamo i profughi e tra i racconti che si succedono, densi di forza narrativa, abbiamo il tempo di inserire in vari momenti il messaggio che portiamo: chi è Gesù, cosa ha fatto nella nostra vita e come può cambiare la loro storia. Sappiamo che lo conoscono come profeta perché nel Corano se ne parla ma qui in Bosnia, in terra ancora musulmana e ai confini di un’Europa cristiana questi profughi ricevono i primi semi di un cristianesimo pratico, diretto, gratuito; ricevono la speranza di una vita migliore che inizia da un rinnovamento interiore che solo Gesù può dare.
È un privilegio essere qui e poter parlare con loro; ovunque andranno Dio continuerà a mandar loro messaggi perché il seme depositato cresca e porti frutto. Ricordiamo per esempio l’incontro speciale di Filippo con l’Etiope? Dio vede lungo.
Ho potuto parlare con un uomo e scoprire che è cristiano, che nasconde ai suoi compagni di viaggio la sua vera fede per ovvie ragioni e si è commosso estraendo il vangelo dal kit che gli abbiamo consegnato; quel singolo momento sarebbe valso da solo tutto il viaggio.
Fare del bene agli ultimi è come farlo a Dio, potremmo dire parafrasando Matteo 25:40. E sono parole di Gesù.