Albero con fotografia a infrarossi

The Giver

Un mondo perfetto senza emozioni

Una volta, durante un’intervista televisiva, ho sentito dire da un teologo e filosofo che la bellezza è la dimostrazione della creazione.
Il mondo avrebbe potuto essere semplicemente come una fabbrica: funzionale, efficiente… ma, ammettiamolo, non possiamo dire che le fabbriche siano belle, danno vita piuttosto a un’indefinita scala di grigi. Invece questa Terra e quest’universo non solo sono funzionali ed efficienti ma anche intessuti di bellezza, dipinti con infiniti gradienti di colori.
Riusciremmo a immaginare un mondo senza bellezza? E quindi senza varietà, senza unicità? Un mondo “buono” ma non così bello? Io no, finché non ho visto il film The Giver di Phillip Noyce e letto l’omonimo libro di Lois Lowry da cui è tratta la pellicola.
Ecco il succo della trama: a un certo punto gli uomini smettono di tramandarsi la storia e stabiliscono un nuovo ordine mondiale sacrificando l’individualità, le emozioni e la bellezza in favore dell’uguaglianza, della sicurezza e della funzionalità. Dunque, per una serie di effetti domino e a causa di alcuni medicinali, questa nuova società perde la capacità di vedere i colori, non sa cosa sia la neve e ignora il vero significato dell’amore e della famiglia.

«Nel nostro mondo le differenze non erano permesse. Gli anziani avevano eliminato tutto ciò affinché tra noi non ci fossero conflitti. Paura, dolore, invidia, odio erano suoni più che parole e la loro eco si perdeva ormai lontano nella storia», spiega il protagonista Jonas (Brenton Thwaites), che non ha un cognome perché i neonati di questa cultura sono “assegnati” alle unità familiari. Solo una persona in questa “società di uguaglianza” conserva i ricordi e la storia, ed è l’Accoglitore di memorie.
Ma c’è un aspetto in questa società di pari – che mi auguro possiamo tutti definire distopica – che è rimasto molto simile a ciò che viviamo oggi, nel 2021: l’omicidio.
Certo nel romanzo e nel film l’omicidio cambia nome, ma resta tale. I neonati considerati inadatti alla vita e gli anziani, infatti, una volta esaurito il loro impegno nella società, vengono “congedati” (o “scaricati”, secondo la traduzione italiana del libro).
Nessuno è consapevole di cosa sia in realtà questo congedo – nel caso degli anziani viene persino celebrato – semplicemente le cose stanno così.
Anche in quello che dovrebbe essere il migliore dei mondi possibili l’umanità non riesce a separarsi dalla supremazia sulla vita, dalla necessità di selezionare chi merita di esserci e chi invece può dire addio, senza aver avuto nemmeno il tempo di mostrare il suo proposito.
Il genere umano ha un atteggiamento schizofrenico nei confronti della vita. Proviamo a pensare a un’altra opera distopica come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood: da un lato le donne fertili sono un bene prezioso, dall’altro possono anche essere uccise tramite la lapidazione.

Sarebbe bello se queste distopie non ci riguardassero, ma ci interessano invece molto da vicino.
«Com’è porre fine alla vita del tuo stesso figlio? Fu asettico e clinico. Lei fu anestetizzata nella sala operatoria di un’importante clinica universitaria; io mi lavai le mani, indossai camice e guanti, scambiai due parole con l’infermiera, mi sedetti su un piccolo sgabello di metallo di fronte al tavolo operatorio […] e introdussi lo speculum Auvard nella vagina dopo aver preparato l’area con una soluzione antisettica. Poi afferrai la cervice con due pinze chirurgiche e infiltrai una soluzione di pitressina […], sondai l’utero […] poi dilatai la cervice con i dilatatori di lucido acciaio graduato.
Quando la cervice risultò dilatata al diametro desiderato, situai la cannula di plastica dentro l’utero e con un cenno all’infermiera comunicai che ero pronto a iniziare l’aspirazione. Quando l’indicatore segnò cinquantacinque millimetri di pressione negativa cominciai a muovere la cannula all’interno dell’utero, mentre osservavo i filamenti di tessuto fluire attraverso la cannula trasparente per finire nella sacca a filtro dove sarebbero stati raccolti, ispezionati e poi portati nel laboratorio di patologia per avere la conferma che il tessuto della gravidanza fosse stato – per dirla con il nostro eufemistico gergo – evacuato».

Queste sono le parole del Dottor Bernard Nathanson – uno dei migliori medici abortisti americani prima di vivere la sua Damasco – che vi invito a leggere direttamente nel suo libro, best seller in America1.

Congedare.

Scaricare.

Evacuare.

Quando abbiamo iniziato a ridurre la bellezza che ci è stata donata a una questione di funzionalità? In che momento abbiamo deciso di aver paura della vita, della diversità, della fragilità a tal punto da non sopportarne la vista? Quando abbiamo deciso che sarebbe stato più efficace offrire pillole e bisturi in luogo di conforto e sostegno?
Quando abbiamo iniziato a sentirci minacciati dai nostri stessi corpi e a vivere una distopia chiamandola normalità?

Non lo so. Quello che so è che il sole avrebbe potuto illuminarci senza che i nostri occhi vedessero il miracolo dei colori, i fiori avrebbero anche potuto essere profumati senza sfoggiare armonia e varietà e così via.
Invece, prima che il tempo iniziasse a esistere, Dio ha progettato la bellezza e l’ha dipinta con amore, mettendo in noi uno spirito (di coraggio) per riuscire a trovarla in ogni cosa.

Per riuscire a percepirla, letteralmente, in ogni cellula del creato e delle creature.


1Bernard Nathanson, La mano di Dio. Il viaggio dalla morte alla vita del famoso medico abortista che cambiò opinione, Tau editrice, Todi 2020.

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